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Free Revolution Zone (Zona rivoluzionaria gratuita) di Khalid Albaih

 

I social media sono stati concepiti come strumenti di comunicazione volti a collegare quante più persone possibili in tutto il mondo. A oggi, circa 3,02 miliardi di persone utilizzano i social media in tutto il mondo: di certo l’obiettivo è stato raggiunto. Tuttavia, rispetto all’inizio, tali piattaforme si sono evolute da luogo in cui socializzare a uno in cui avviare un cambiamento e promuovere l’attivismo politico. L’attivismo online ha alimentato i movimenti di protesta internazionali e ha modificato per sempre il modo di avviarli e portarli avanti.



Un hashtag al giorno leva la polizia di torno

Per definizione, un hashtag è un tipo di tag di metadati che viene utilizzato sui siti di social networking (per lo più Twitter), al fine di apporre dei tag generati dagli utenti. Gli hashtag sono stati creati per poter associare dei tag a determinati argomenti utilizzando il segno “#”, rendendo tali argomenti riconoscibili e condivisibili online da tutti in tutto il mondo. In passato, la pratica dell’hashtag è stata utilizzata a mo’ di forum per commentare programmi televisivi in tempo reale, per dare risalto a eventi di interazione sociale e per scherzare online con i cosiddetti “meme”. Negli ultimi anni, però, la concezione degli hashtag è cambiata.

Nell’estate del 2014, in due episodi diversi, due uomini afroamericani disarmati vennero uccisi dagli agenti di polizia. Eric Garner (luglio) venne immobilizzato e strangolato a morte da cinque poliziotti di New York, mentre Michael Brown (agosto) fu colpito da diverse pallottole sparate a Ferguson, Missouri, dall’agente di polizia Darren Wilson. I due episodi diventarono virali su Internet e negli Stati Uniti provocarono una forte reazione di protesta. Le persone cominciarono a rendersi conto che negli Stati Uniti la brutalità della polizia nei confronti degli afroamericani era assai ricorrente. Questa nuova consapevolezza spinse i gruppi di attivisti a cercare di porre fine a una tale oppressione sistematica. L’hashtag “#BlackLivesMatter” (“la vita delle persone di colore conta”, ndt) divenne molto popolare su Twitter, e fin dalla sua creazione generò un effetto domino di eventi che non solo cambiarono il modo di considerare gli agenti di polizia da parte dei cittadini statunitensi, ma anche il modo di percepire i social media da parte del mondo intero.

 

Novembre 2014. The All Night Images

 

Sebbene la campagna “#BlackLivesMatter” non fu la prima a nascere online (la prima fu “Occupy Wall Street”, “Occupiamo Wall Street”, ndt), senza dubbio fu quella che ebbe più risonanza. Dopo la morte di Eric Garner e Michael Brown, in tutti gli Stati Uniti si scatenarono molte proteste. Durante i disordini di Ferguson, dopo che il gran giurì aveva deciso di non incriminare l’agente di polizia Darren Wilson, i manifestanti trasformarono la rabbia scatenata da una tale inguistizia in violenza. I social media non ebbero solo un ruolo fondamentale nell’organizzazione della protesta, ma consentirono al resto del mondo di seguire la vicenda. Vari canali informativi diedero la propria versione dei disordini. Fortunatamente, Twitter diede l’opportunità di caricare i video degli scontri e permise alle persone coinvolte di divulgare le loro testimonianze.

A seguito di tali scontri, a dicembre cinque giocatori dei Los Angeles Rams organizzarono una protesta pacifica durante una partita contro gli Oakland Raiders, entrando nello stadio con le mani in alto. Il loro gesto, tradotto poi nello slogan “Hands Up, Don’t Shoot” (“Mani in alto, non sparate”, ndt) fu un modo per rendere omaggio alla recente morte di Michael Brown. Molti altri personaggi famosi (Kim Kardashian West, The Weekend, ecc.) aderirono all’iniziativa dei giocatori di football americano, come pure altri paesi quali Irlanda e Sud Africa. La protesta contro gli atti di violenza della polizia raggiunse proporzioni mondiali. Il successo di #BlackLivesMatter ha spianato la strada ad altri movimenti che sono nati e si sono sviluppati online (#MeToo,#MarchForOurLives, ecc., “Anche io”, “In marcia per la nostra vita”, ndt). Tuttavia, nonostante ci siano attivisti che hanno successo sui social media, non bisogna dimenticare che ce ne sono altri i cui movimenti si smorzano pian piano fino a morire per mancanza di motivazione.

 

Foto di See Li

Ridateci le nostre ragazze… o forse no

La campagna“#BringBackOurGirls” (“Ridateci le nostre ragazze”, ndt) del 2014 è un esempio perfetto di come una causa nobile possa ottenere l’effetto contrario. Ad aprile del 2014, 276 studentesse vennero rapite da una scuola secondaria di Chibok, nello stato nigeriano di Borno, da Boko Haram. Dopo che la notizia del sequestro fece il giro del mondo, aumentò anche l’attivismo sui social media nella speranza di dare risalto alla tragedia. L’hashtag “#BringBackOurGirls” prese subito piede. Poco dopo, molti personaggi famosi iniziarono a pubblicare dei tweet riguardo al rapimento e alcuni di loro si mostrarono persino con dei cartelli in mano durante il Festival del cinema di Cannes.Tuttavia, “#BringBackOurGirls” si spense con la stessa rapidità con la quale si era diffuso, e la maggior parte di coloro che si erano dimostrati attivi su Twitter non fece nulla di concreto per la causa reale. Non si trattava di attivismo, ma del cosiddetto “slacktivism”.

Lo “slacktivism” secondo Elia van der Giessen

 


“Slacktivism” è un termine che descrive l’atteggiamento di chi online dimostra un certo fervore nei confronti di una questione politica o sociale, ma che al di fuori di Internet non compie alcuna azione reale. Queste persone sono pigre, ma si sentono nel giusto solo per aver impiegato trenta secondi per pubblicare un tweet a favore di una causa. Ne sono un esempio i millennial: molto attivi nelle proteste online ma immobili in quelle offline. Di certo non tutti coloro che hanno preso parte a #BringBackOurGirls erano privi di spirito di motivazione, ma di fatto gli utenti Twitter non hanno salvato quelle ragazze. Sono stati il governo nigeriano e quello svizzero con l’aiuto della Croce Rossa a riuscire a portarne in salvo qualcuna. Ciò che è davvero triste è che a causa dell’hashtag le ragazze sono diventate troppo famose. Le poche che sono state salvate dai rapitori non possono mai di fatto tornare a casa dalle rispettive famiglie, in quanto il governo nigeriano considera troppo pericoloso non tenerle sotto protezione.


Qualunque sia la vostra opinione in merito all’attivismo sui social media, è innegabile che esso abbia avuto degli effetti importanti sulla società. Molte persone in tutto il mondo non sarebbero informate sugli eventi di attualità se non ci fossero i siti di social networking. Nel bene e nel male, i social media danno voce a movimenti che rimarrebbero sconosciuti senza l’esistenza del Web.

E voi, trovate utile o dannoso l’attivismo sui social media? Fateci sapere la vostra opinione.

 

Traduzione di Martina Stea

Andrea Spila

Andrea Spila

Andrea Spila è traduttore e web writer. Prima di laurearsi in filosofia e di ottenere un dottorato in pedagogia sperimentale, ha insegnato l’inglese nelle scuole materne ed elementari. Ha lavorato anche come interprete, in particolare per scrittori e artisti, tra i quali spiccano Rebecca Solnit e Ken Loach. Nel 1999 ha fondato Traduttori per la Pace, un’associazione di volontari che offrono le proprie competenze alle organizzazioni della società civile impegnate nella difesa dei diritti umani e dell’ambiente. 
Oltre a scrivere, Andrea ama cantare, arrampicare e andare in canoa. 

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